Un passo davanti all’altro su frammenti di mondo continuamente nuovi. Settantaquattro centimetri di terra più in là, più in là e ancora oltre. Niente è più naturale da quando abbiamo conquistato la posizione eretta, chiave di volta nella storia evolutiva e nelle migrazioni verso la conquista e la conoscenza del mondo.
Non siamo fatti per passare le giornate seduti davanti a un pc o fermi sul posto. Ce lo ricorda l’anatomia e la forma delle ossa, eppure in troppi lo dimenticano. Da eretti siamo diventati civiltà dei seduti.
Il mio grande viaggio in piedi è iniziato, come per tutti, al compimento del primo anno di vita. Vivevo in un appartamento di città con un corridoio di dodici metri. La mamma mi ha raccontato che non mi stancavo di percorrerlo. Dal corridoio ai sentieri è stato solo questione di pochi anni.
Marinavo la scuola per camminare sull’Appennino tosco emiliano, sulle Apuane, nelle Cinque Terre, a fianco al Vara e al Magra, i fiumi alle spalle di La Spezia, la mia città. Nell’ampliare gli orizzonti e realizzare i sogni ero diventato insaziabile: la catena appenninica palmo a palmo, tutte le Alpi di colle in colle, il periplo delle coste peninsulari e insulari, documentandone orrori e meraviglie.
E sempre macchina fotografica al collo e zaino affardellato, l’Europa che cambiava alla caduta del muro di Berlino e, recente sogno, nonché dottorato di ricerca, l’anno a piedi attraverso ventidue paesi del nostro continente.
Camminare è stato per me scuola dell’obbligo e università. Forse nemmeno scelta ma necessità per cercare una relazione sentimentale con la terra e chi la abita. A piedi si è fuori, senza gusci protettivi e placente di lamiera. S’incontra, si sente con tutti i sensi, esponendosi alla complessità, al contrario della velocità che semplifica e appiattisce. Ho capito che il cammino più importante parte da casa ed esplora la briciola di mondo che ci ospita: suolo fertile a sostenerci e nutrirci da conoscere con lentezza per amarlo e difenderlo. Oggi più che mai.
Riccardo Carnovalini